Ma com'è cominciata questa cosa qui?



“Ma io non so com'è nata questa cosa qui, e quando mai è cominciata” cantava Ivan. Neanche io lo so, francamente, quand’è cominciata questa cosa qui. Di sicuro dopo il 1987, quando Bassi e Friggeri erano solo due nomi su un elenco, quello degli alunni della classe IL del Liceo Scientifico Aldo Moro. Due quattordicenni in un mondo senza cellulari, scaraventati in una classe che sarebbe stata una benedizione per le loro vite, di uomini e narratori. Narratori, sì, perché dopo tre romanzi e un quarto in dirittura d’arrivo non ce la sentiamo di usare quella parola là. Sì, quella che inizia per scrit e finisce per tori. Ché certe parole, se non stai bene attento, è un attimo che diventino parolacce. Ma comunque. Liceo Moro, si diceva, lL che sarebbe cresciuta fino a diventare la Quintaelle, che non è una classe ma un nome proprio (consultare Nueter Forever per ulteriori dettagli). Pulcini fiduciosi affacciati sull’orlo dell’adolescenza, Bassi un cespuglio di capelli lisci su una sciarpa perpetua, Friggeri due mani più grandi perfino del naso. L’uno figlio unico di città, dai romantici trascorsi nella bassa reggiana. L’altro secondogenito di provincia, ai primi passi fuori dal territorio comunale, sopra una corriera e lungo le strade del capoluogo, fino ai cancelli della succursale. Perché il corso L era un corso periferico e scalcinato, come periferica, scalcinata e ribelle sarebbe stata quella classe.

All’inizio devono essere stati i Pooh. E Baglioni. Eh sì, bisogna dirle subito certe verità. La mia scusa è la sorella maggiore e il suo mangianastri con la cassetta di “Alè-ò-ò” da un lato e “Palasport” dall’altro. Un incrocio di note in una strana storia, sempre per citare i poeti, che segnò in modo indelebile la formazione musicale del decenne che ascoltava quella TDK 90’ senza capire bene la differenza fra il lato A e il lato B. La scusa di Bassi non la so, ma parliamo di uno che rendeva l’acquisto e l’ascolto di ogni nuovo disco dei Pooh un rituale che i massoni gli invidiano tuttora. Capite che in piena epoca di discomusic, ascoltare questa roba a quell’età ti rendeva perlomeno bizzarro. Fra bizzarri, si chiacchiera. E ci si trova. E si cominciano a passare lunghe giornate estive a vagheggiare di musica e calcio e ragazze, con l’arricchimento, negli anni, di cinema, politica, eccetera. E libri, chiaro. Perché non puoi scrivere con uno che non abbia certi gusti. Cioè, puoi passare sopra a tante cose in nome dell’amicizia e della passione per la scrittura. Puoi soprassedere su divergenze filosofiche, religiose, politiche, sportive. Puoi passare sopra silenzi e tradimenti, sarcasmo e indolenza, aggressività e superbia. Ma se gli piace Baricco, no. Se legge Sorrentino, no. Se detesta Doyle o Hoeg, men che meno.

E così, ci siamo formati a vicenda, sulle fondamenta di Baglioni e dei Pooh. Eh sì. Bisogna ribadirle, certe verità. Ci vuole coraggio, ma bisogna farlo. Ci siamo formati scoprendo autori e musicisti, con innamoramenti umani e intellettuali che ci hanno portato spesso lontano uno dall’altro, ma alla fine siamo sempre tornati a quei libri, a quei dischi, a quei pomeriggi iniziati a quattordici anni e mai veramente terminati.

Uno dei primi ce lo ricordiamo ancora bene tutti e due. Un circolo con la piscina, due sdraio all’ombra degli aceri verdi. Già da qualche tempo ci scambiavamo brevi racconti e poesie, perché in un mondo senza internet avere anche solo un lettore era tanta roba. Uno dei due l’ha buttata lì, quasi per ridere. Perché non scriviamo una poesia insieme? Una poesia insieme, beata gioventù. Eppure. Il cielo era azzurro tra il fogliame degli alberi, e Il Barone Rampante ci aveva insegnato come si guarda un cielo così, “solo a sprazzi irregolari e ritagli”. Il titolo fu Ritagli di Blu. Un verso ciascuno, tenera imitazione ermetica, a capo ogni tre parole per stemperare la banalità. Era il 26 agosto del 1991, e forse, caro Ivan, adesso lo so quand’è che è cominciata questa cosa qui.

Un paio d’anni dopo, mentre la facoltà di Giurisprudenza ci vedeva entrambi nuotare controcorrente e la Quintaelle iniziava la sua lenta trasformazione da ricordo a personaggio letterario, facemmo il passo decisivo sul percorso iniziato al circolo dei Quercioli. Vuotammo i cassetti, componemmo un indice. 25 racconti e 34 poesie. E un titolo: Anime Minime. L’incipit era “Il racconto di una storia d’amore non è mai semplice prosa, ma non può essere del tutto poesia”. Neanche male, ma resta il punto più alto dell’opera, che poi scivola inesorabilmente lungo il declivio di una scrittura acerba e intrisa di retorica. Ma chisseneimporta.

Anime Minime è stato la rottura di un argine. Un fiume di sorrisi e parole sceso da una montagna alta come cinque anni di liceo, e sfociato in una manciata di fogli sporchi d’inchiostro. Concreti, ruvidi, arruffati come sanno essere solo certi anni. Tutto quello che c’è stato, prima e dopo, in fondo è sempre stato solo questo. Due Anime Minime inciampate l’una nell’altra, lungo il sentiero tortuoso della scrittura.

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