Quelli che restano

 


Umberto Boccioni, 1911, olio su tela; Milano, Galleria d’Arte Contemporanea


 Musica: John Williams - Theme from Schindler’s list

Mio padre, e il suo passo lento, il suo corpo stanco. Mio padre e i suoi tanti anni. Sento da qui, chiara e stampata nei pensieri, la forza del suo dolore.

Il suo sorriso dolcissimo, all’avvicinarsi degli zoccoli festosi del cavallo, io bambina all’ippodromo. E quella criniera scura scossa dal vento, i suoi occhi fatti piccoli dalla gioia di vedermi stupita e felice, le vibrazioni ritmiche nella polvere chiara della pista, il suo braccio forte, il suo fiato caldo, le labbra grandi nei piccoli baci regalati alla mia infanzia, al mio viso sognante di bimba.

Mia sorella, la dignità del suo abito scuro, dei suoi capelli lisci e composti, asciutti. Il passo lento e appropriato, misurato nell’esperienza di tante finzioni, di tanta calcolata compassione. Sua figlia, e quel sorriso già così finto; ancora così piccola, così presto destinata a vendere la poesia dei riflessi dorati fra i boccoli biondi.

L’altalena è nuova, papà ce l’ha appena regalata. Le corde bianchissime pendono tra le fronde verdi del noce, in giardino. Mia sorella, bellissima nel suo abitino bianco già ondeggia in un dondolìo di sorrisi e complimenti, e dal suo ritmico sorvolare getta sulla mia bocca aperta tutta la coscienza della superiorità, occhiate maliziose serenamente trionfanti sui miei piedi così ben fermi nell’erba di maggio. Poi un movimento sbagliato, un piccolo grido, e lunghe macchie verdi sul vestito bianco mentre lacrime di rabbia scendono dai suoi occhi fissati furenti nei miei. Lo schiaffo sulla mia mano, mentre cerco di aiutarla a rialzarsi, brucia tanto.

I miei amici. Percepisco chiara la purezza della condivisione nella sofferenza. Francesca e il suo zainetto blu, Marco e la sua giacca scomposta, sempre un po’ storta, Luca e gli occhiali fermi sul naso, appannati da lacrime sincere di abbandono. Simona e il ciondolo d’oro che batte ritmico sul collo bianco e liscio, tanto più bello di quanto io abbia mai sognato.

Il prato immenso, allagato di sole e vento e immobilità. Il suono della chitarra s’infila sotto il plaid e tra i sorrisi sfumati in battute forti d’armonia. Ridono, i miei amici. Ridono e cantano, mentre la mia mano sfiora quasi per caso la sua. Lui non si volta, continua a cantare sereno, ma il suo palmo caldo e grande si posa sul dorso delle mie dita magre, sul metallo dei miei piccoli anelli.. E’ solo dopo un po’ che, furtivo, uno sguardo dipana la matassa di complice silenzio annodata tra la sua mano e la mia, tra i miei sedici anni e i suoi progetti di sognatore, la mia coda di capelli castani e il suo profilo spigoloso e fragile. E’ solo dopo molto che il peso del suo corpo asciutto riscalda l’umido fruscio dell’erba alta e la mia inconcepibile confusione immersa nel sorriso della gioia perfetta.

Il prete ha chiuso il breviario. Di tutti loro non restano che le spalle lontane, le frasi di circostanza, la circostanza pesante della mia assenza. Il rumore dei loro cuori che battono stanchi all’unisono fa vibrare, a tempo, i fiori bianchi posati sulla mia tomba. Vi voglio bene, ve ne vorrò sempre.

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